
Model: Lucrezia Mori
Scene non vissute #1 L'attimo prima del silenzio
In questa composizione sospesa tra sogno e metropoli, l’immagine cattura un istante che sembra trattenere il respiro. Una donna salta nel vuoto di una strada notturna di New York, non per fuggire né per cadere, ma per restare. È un gesto che non ha meta, ma solo significato: il desiderio, l’ignoto, la tensione tra ciò che vorremmo trattenere e ciò che ci sfugge.
Alla finestra, c’è l’autore: non si sa se stia guardando fuori o dentro di sé. Di fronte, una figura femminile che fuma — ferma, distante — rappresenta la memoria o l’oblio. Entrambe osservano, ma non intervengono. Nessuno comunica, eppure tutto parla.
Il taxi giallo, icona del movimento urbano, attraversa la scena come simbolo del tempo che corre, delle occasioni che passano, o forse delle partenze che non si compiono mai. La cabina telefonica resta illuminata ma vuota: una promessa di comunicazione, rimasta inascoltata.
E infine il poster, vestigia di un gruppo musicale sull’orlo della rottura, diventa simbolo del passato che affiora: ciò che era condiviso ora è frammentato, lasciando solo tracce visive, come una canzone che non viene più suonata.
Questa scena non è mai avvenuta, eppure la riconosciamo. È un ricordo costruito, un frammento di noi stessi che si manifesta in una notte qualunque, senza tempo.

Model: Livia Bono
Scene non vissute #2 Qualcosa sta per accadere
la protagonista è colta in un momento di assoluta sospensione. Il suo corpo, eretto e immobile, emerge come una colonna rossa nel fluire rapido di una metropolitana in corsa. La scena vibra di contrasti: movimento e stasi, anonimato e presenza, caos e consapevolezza.
Il cappotto rosso che indossa diventa un segnale visivo potentissimo: non solo richiama l’attenzione, ma afferma identità, decisione, vulnerabilità esposta. Il colore, caldo e carnale, si oppone al freddo blu e verde dello sfondo, creando un cortocircuito emotivo che disorienta e affascina. È come se il tempo stesso avesse smesso di funzionare attorno a lei, mentre la donna si sottrae alle logiche della fretta, del passaggio, della destinazione.
Il suo sguardo rivolto verso l’alto — verso qualcosa che non vediamo — rafforza il senso di attesa indefinita. Non è chiaro se stia cercando una via d’uscita, osservando un segnale, o ascoltando qualcosa dentro di sé. In questo gesto, semplice ma carico di intensità, si condensa un’intera narrazione interiore.
Il treno in movimento suggerisce la frenesia della vita moderna, l’automatismo dei gesti quotidiani, il fluire del tempo. Ma lei è fuori sincrono, intenzionalmente. Come se fosse l’unica consapevole in un mondo ipnotizzato dalla velocità. È un’icona di resistenza silenziosa, una figura mitica in un contesto urbano.
In questa immagine non accade nulla — eppure tutto è sul punto di accadere

Scene non vissute #3 I ricordi del futuro
Nel panorama visivo costruito da questa fotografia, l’artista mette in scena un'immagine fortemente evocativa, in bilico tra apocalisse e memoria, sogno e documento. I ricordi del futuro si impone subito come un titolo ossimorico, uno slittamento temporale che invita a pensare a ciò che non è ancora accaduto ma già porta con sé il peso della nostalgia. È un tempo ipotetico e malinconico, congelato come la scena stessa.
L’inquadratura centrale, con la prospettiva che conduce l’occhio verso l’orizzonte scomparso nella tempesta, suggerisce un cammino interrotto. Il furgone abbandonato – svuotato, arrugginito, consumato dalla salsedine – diventa reliquia di un passaggio umano ormai svanito. Sulla strada, il simbolo sbiadito della Route 66, leggibile solo in parte, funge da segnale spettrale: un richiamo a un immaginario americano decaduto, quasi post-atomico, in cui il mito del viaggio e della libertà si è arenato.
Ma è l’aggiunta delle tre ombre in basso a introdurre l’elemento più perturbante: presenze non identificate che osservano, testimoni silenziosi o fantasmi del passato. Non hanno corpo, solo proiezione: potrebbero essere i protagonisti mancati della scena o gli spettatori interni di questo “ricordo del futuro”. La loro posizione, defilata e anonima, ci ricorda che anche chi guarda è parte della narrazione.
L’intera immagine è costruita su un impasto visivo drammatico, quasi cinematografico: l’alto contrasto, i toni freddi, il cielo tempestoso e la spiaggia deserta rinforzano un senso di sospensione, come in un fotogramma rubato a un film che non esiste. La fotografia non vuole spiegare, ma evocare.
Con Scene non vissute, l’autore sembra costruire un atlante di realtà alternative, in cui ogni scatto è frammento di una storia rimossa, forse mai accaduta, ma viscerale e riconoscibile nel profondo dell’immaginario collettivo. In questo contesto, I ricordi del futuro è una delle visioni più potenti: una riflessione sul tempo, sull’abbandono e sulla natura fragile della memoria – anche quella che non abbiamo ancora costruito.

Model: Ileana Del Sole
Scene non vissute #4 Punto di non ritorno
In Punto di non ritorno, l’autore mette in scena un atto silenzioso di resistenza: una figura femminile sola, seduta al centro di una strada rurale, interrompe la continuità del paesaggio come se fosse un punto esclamativo all’interno di una frase interrotta. L’immagine è costruita con una rigorosa simmetria, ma è la dissonanza emotiva che la abita a generare tensione narrativa.
L’estetica cinematografica — cifra stilistica ormai riconoscibile dell’intera serie — si piega qui verso un tono sospeso, malinconico, quasi beckettiano. L’inquadratura ampia e orizzontale accentua la condizione di isolamento, mentre il cielo basso e drammatico grava sull’inazione come un peso. La luce, filtrata da nubi inquiete, contribuisce a un senso di tempo fermo e luogo indefinito, elementi ricorrenti nell’universo visivo dell’autore.
L’uso della valigia come oggetto narrativo non è accessorio: diventa simbolo di transizione negata, di una partenza mancata o forse di un ritorno impossibile. La giovane donna non guarda altrove, non si distrae: fissa l’osservatore con lo stesso enigma con cui fissa il proprio destino. In questo sguardo frontale c’è più sfida che attesa, più consapevolezza che smarrimento.
Punto di non ritorno riflette sul momento in cui le scelte non sono più reversibili, ma non lo fa gridando. L’immagine lavora per sottrazione, come un sussurro che resta nella mente. È una scena che potrebbe non essere mai avvenuta — eppure parla a chiunque abbia mai esitato davanti a un bivio.
L’opera si inserisce con coerenza nella serie Scene non vissute, rafforzandone la poetica del margine, dell’incompiuto, del tempo mentale. È un frammento narrativo che lascia spazio all’interpretazione, ma che non rinuncia a una sua forza visiva netta, asciutta, emotivamente carica.

Scene non vissute #5 Guilty Mind
In questo nuovo frammento della serie Scene non vissute, l’autore mette in scena se stesso, rinchiuso in una stanza spoglia che è insieme cella fisica e luogo mentale. Guilty Mind è un titolo che rimanda a una condanna silenziosa, a una sentenza non emessa da un tribunale, ma dalla coscienza. Il protagonista – che è anche autore – siede al centro, immobile, con lo sguardo dritto verso l’osservatore, costringendoci a entrare nella sua prigione interiore.
L’ambiente è minimale, ma carico di simbolismo. Le pareti bianche sono contaminate da parole e disegni primordiali: “Not enough”, occhi, spirali, scarabocchi. Sono pensieri che si aggrovigliano, frasi non dette, visioni disturbanti emerse da un inconscio in tumulto. La luce che entra dalla finestra alle sue spalle – unica fonte di fuga visiva – non illumina né libera: evidenzia l’isolamento, lo mette a nudo.
La tuta arancione che indossa richiama l’immaginario carcerario, ma qui diventa anche un abito dell’espiazione: indumento simbolico di una colpa indefinita, forse non commessa, forse solo temuta. Sulla divisa appaiono segni criptici, frammenti che rimandano a un’identità in frantumi. È un io scomposto che si osserva da dentro, diviso tra rimorso, paura e confusione.
La centralità dell’inquadratura e la simmetria dell’ambiente rafforzano l’effetto claustrofobico: non c’è movimento, non c’è via d’uscita. Ma allo stesso tempo, è proprio in questa immobilità che si apre un varco: Guilty Mind è anche un atto di coraggio, un’esposizione radicale. La fotografia diventa autoritratto psichico, documento di una crisi esistenziale universale.
Con questa opera, l’artista spinge ancora oltre il confine tra realtà e finzione. Se le Scene non vissute sono ricordi inventati, visioni sospese tra possibile e immaginario, Guilty Mind ne rappresenta la vertigine più profonda: quella di non sapere se si è vittime, colpevoli o semplici testimoni del proprio smarrimento. In questo senso, l’immagine si fa confessione muta, sospesa nel tempo e nello spazio, come un sogno inquieto da cui non ci si riesce a svegliare.

Model: Samira Coluccino
Scene non vissute #6 Il richiamo di Parthenope -
L’opera The Call of Parthenope si inscrive pienamente nel vocabolario visivo e simbolico della serie Scene non vissute, arricchendola di un tono mitologico ed elegiaco. Qui il soggetto si fa emblema del desiderio di ritorno, del richiamo di origini che non smettono di cantare anche a distanza di tempo e spazio.
Seduta su uno scoglio immerso in un mare silente, la figura della sirena incarna la leggendaria Parthenope, fondatrice mitica di Napoli. Ma questa Parthenope non canta per sedurre: canta per ricordare. Il suo sguardo non guarda lo spettatore, ma si ripiega su se stesso, in un gesto quasi protettivo, malinconico, che rompe la tradizione del mito per restituire una creatura fragile, umana, evocativa.
Alle sue spalle, il profilo riconoscibile del Vesuvio affiora tra le nuvole, come un'eco lontana della città abbandonata. È un’immagine che parla di esilio, di nostalgia, ma anche di identità e radici che resistono sottopelle. La scelta cromatica è dominata da toni freddi, acquatici, che esaltano il senso di sospensione e distacco, mentre i riflessi sulla superficie dell’acqua suggeriscono la profondità di un'emozione sommersa.
The Call of Parthenope si offre così come una confessione visiva, un sogno lucido in cui la memoria assume la forma del mito e il paesaggio interiore si confonde con quello della propria città d’origine. È un'immagine che non chiede spiegazioni, ma ascolto. Come una voce nella notte.

Model: Livia Bono
Scene non vissute #7 Unstill Stillness
L’opera Unstill Stillness si inserisce con naturalezza nel percorso visivo e tematico del progetto Scene non vissute, arricchendolo di un’intensa introspezione e di un’atmosfera sospesa tra tensione e quiete.
La figura femminile, seduta su uno sgabello al centro di uno spazio spoglio, diventa emblema di uno stato interiore di attesa e riflessione. Non è semplicemente immobile: la sua posa suggerisce un’energia trattenuta, un’esistenza che si appresta a muoversi ma rimane per il momento bloccata nel tempo. Lo sguardo assente e il corpo raccolto dialogano con lo spazio vuoto intorno, evocando un senso di solitudine non solo fisica ma soprattutto emotiva.
Il minimalismo della scena e la luce tenue accentuano questa dualità tra presenza e assenza, tra un momento che sembra eterno e l’urgenza di un cambiamento imminente. L’assenza di dettagli superflui rende l’immagine una superficie riflettente, uno specchio su cui proiettare emozioni e stati d’animo universali.
Dal punto di vista formale, la fotografia dimostra un equilibrio raffinato tra composizione e luce, con una cura attenta alle ombre e ai toni, che sottolineano la tridimensionalità della figura senza appesantire l’immagine. Il contrasto delicato e il vuoto circostante contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, quasi onirica, tipica del linguaggio visivo della serie.
Unstill Stillness si offre così come una pausa contemplativa all’interno della narrazione di Scene non vissute, un istante di silenzio che invita l’osservatore a fermarsi e a confrontarsi con il proprio mondo interiore. È un’immagine che non cerca di raccontare una storia precisa, ma piuttosto di evocare un sentimento, una presenza indefinita eppure palpabile.

Model: Veronica Lido
Scene non vissute #8 Scene from Elsewhere
In un paesaggio sospeso tra tempesta e calma, una figura femminile in rosso rimane immobile al centro della strada, lo sguardo rivolto verso l’osservatore. Alle sue spalle, un biplano rompe l’orizzonte, evocando un pericolo imminente o forse un richiamo lontano.
L’immagine è un omaggio e una rilettura: la tensione narrativa di Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock si fonde con l’ironia teatrale e il potere femminile delle messe in scena di Helmut Newton, in particolare Female Running from Biplane, Go Go Boots.
Qui, però, la fuga non avviene: la protagonista non scappa, non si piega alla minaccia. Rimane, radicata come se il cielo fosse suo e il volo dell’aereo facesse parte di un copione già scritto. Una scena mai vissuta, ma pronta a esistere.
L’immagine è un omaggio e una rilettura: la tensione narrativa di Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock si fonde con l’ironia teatrale e il potere femminile delle messe in scena di Helmut Newton, in particolare Female Running from Biplane, Go Go Boots.
Qui, però, la fuga non avviene: la protagonista non scappa, non si piega alla minaccia. Rimane, radicata come se il cielo fosse suo e il volo dell’aereo facesse parte di un copione già scritto. Una scena mai vissuta, ma pronta a esistere.

Scene non vissute #9 The Clockless White Rabbit
In “Clockless White Rabbit”, l’artista prende in prestito la figura del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie per compiere un gesto sovversivo: privarlo dell’orologio, del simbolo stesso della corsa e dell’urgenza. La giovane figura in costume, colta in un momento di introspezione malinconica, diventa così emblema di un tempo interiore che non ha scadenze né pressioni.
La scena è costruita con un’attenzione quasi cinematografica: il fondale notturno, i riflessi delle luci, l’orologio senza lancette, concorrono a creare un’atmosfera sospesa, a metà fra sogno e realtà. Il contrasto tra l’innocenza infantile del costume e la malinconia dell’espressione suggerisce una riflessione più ampia sulla crescita, sulle decisioni che non possono essere anticipate, sulle emozioni che maturano “a loro tempo”.
Con questo lavoro, l'autore invita lo spettatore a liberarsi dall’ansia del tempo lineare e a riconoscere il proprio ritmo interiore. “Clockless White Rabbit” non è un’ode alla lentezza, ma un manifesto di autonomia emotiva: ogni scelta, ogni emozione, ogni svolta della vita trova il proprio momento, e non può essere forzata.

Model: Laura Fontana - Credit: Andrea Vagnarelli
Scene non vissute #10 Echoes of Existence
In questo nuovo capitolo della serie Scene non vissute, l’autore affronta il momento più intimo e radicale del suo percorso: la soglia tra la vita e la morte. Echoes of Existence nasce da un’esperienza reale — il coma — e dalla volontà di restituirne l’eco invisibile, la vibrazione residua che continua a risuonare nel corpo e nella mente.
Il soggetto, avvolto in un velo trasparente, appare sorpreso, incredulo. Il tessuto diventa pelle ulteriore, barriera fragile tra due mondi: quello terreno e quello dell’altrove. La figura sembra lottare contro la materia che la imprigiona e al tempo stesso ne è protetta, come se il velo fosse insieme sudario e placenta.
La luce, proveniente dall’alto, attraversa il bianco del tessuto e lo trasforma in una fiamma silenziosa. È una luce che non illumina, ma rivela: disegna i contorni del respiro, suggerisce il battito ancora presente, il ritorno. In questa tensione tra oscurità e chiarore, il corpo dell’autore diventa simbolo universale della sopravvivenza — di quella forza invisibile che trattiene la vita sul ciglio del nulla.
Non c’è teatralità, ma abbandono. Non c’è posa, ma resa. L’immagine è al tempo stesso confessione e rinascita, visione interiore e testimonianza di una soglia attraversata. Echoes of Existence è l’eco di un istante che non si può raccontare con le parole: il momento in cui l’esistenza vacilla, e poi, inspiegabilmente, sceglie di restare.

Scene non vissute #11 The Inner Gaze
In questo nuovo frammento della serie Scene non vissute, l’autore si ritrae in una dimensione sospesa tra sogno e realtà. La scena, immersa in una nebbia verdastra che diluisce i contorni della città, appare come un luogo mentale più che fisico: uno spazio dell’attesa, del pensiero, dell’introspezione.
Accanto a lui, una giraffa – figura surreale – interrompe la logica della realtà, introducendo una presenza simbolica. Il suo sguardo alto e distante diventa la proiezione di una coscienza che osserva da altrove, forse dall’interno.
Accanto a lui, una giraffa – figura surreale – interrompe la logica della realtà, introducendo una presenza simbolica. Il suo sguardo alto e distante diventa la proiezione di una coscienza che osserva da altrove, forse dall’interno.
L’autore non reagisce a quell’apparizione: la accoglie, immobile, come si accetta una parte di sé rimasta troppo a lungo invisibile.
In questa convivenza silenziosa tra uomo e animale si manifesta la tensione fra il terreno e l’elevato, fra la chiarezza e l’opacità, fra ciò che si comprende e ciò che resta oltre la nebbia.
La giraffa diventa così il simbolo di un’osservazione che supera la vista fisica — una forma di lucidità emotiva, fragile ma necessaria, che illumina il confine tra il reale e l’interiore.
In questa convivenza silenziosa tra uomo e animale si manifesta la tensione fra il terreno e l’elevato, fra la chiarezza e l’opacità, fra ciò che si comprende e ciò che resta oltre la nebbia.
La giraffa diventa così il simbolo di un’osservazione che supera la vista fisica — una forma di lucidità emotiva, fragile ma necessaria, che illumina il confine tra il reale e l’interiore.
La luce artificiale dei lampioni filtra attraverso il velo di foschia come un pensiero che tenta di farsi chiarezza. Ogni elemento della composizione — la prospettiva centrale, il vuoto della strada, il silenzio sospeso — contribuisce a costruire un’immagine di calma apparente e di profonda tensione interiore.
Non c’è movimento, ma un lento scorrere del tempo interiore: l’attimo in cui lo sguardo si rivolge verso se stesso.
Non c’è movimento, ma un lento scorrere del tempo interiore: l’attimo in cui lo sguardo si rivolge verso se stesso.
Con The Inner Gaze, l’autore continua a esplorare il fragile equilibrio tra rappresentazione e introspezione.
Se in Guilty Mind la prigione era mentale e soffocante, qui l’apertura è verticale: lo sguardo si eleva, ma resta confinato nel sogno. È un varco verso l’alto che non promette fuga, ma consapevolezza.
L’immagine si offre come un autoritratto psichico, un momento di sospensione in cui la realtà diventa visione e la visione, memoria di qualcosa che forse non è mai accaduto — una scena non vissuta, ma profondamente sentita.
Se in Guilty Mind la prigione era mentale e soffocante, qui l’apertura è verticale: lo sguardo si eleva, ma resta confinato nel sogno. È un varco verso l’alto che non promette fuga, ma consapevolezza.
L’immagine si offre come un autoritratto psichico, un momento di sospensione in cui la realtà diventa visione e la visione, memoria di qualcosa che forse non è mai accaduto — una scena non vissuta, ma profondamente sentita.

Scene non vissute #12 Cornered
In questa scena, l’autore costruisce uno spazio senza via di fuga: un angolo di muro, una gabbia mentale.
La figura — femminile ma universale — non è tanto minacciata da un pericolo esterno quanto da se stessa.
Il muro alle spalle diventa una metafora della pressione interiore, del sentirsi costretti in un ruolo, in una versione di sé che non si riesce più a sostenere.
L’abbigliamento incompleto, l’espressione diretta ma vuota, e la postura sospesa tra sfida e resa, suggeriscono un momento di vulnerabilità esposta.
C’è un’energia di resistenza silenziosa: la figura non scappa, ma affronta il proprio confinamento.
La luce verdastra e sporca amplifica la sensazione di alienazione, come se lo spazio appartenesse a un sogno tossico o a un ricordo alterato.
La figura — femminile ma universale — non è tanto minacciata da un pericolo esterno quanto da se stessa.
Il muro alle spalle diventa una metafora della pressione interiore, del sentirsi costretti in un ruolo, in una versione di sé che non si riesce più a sostenere.
L’abbigliamento incompleto, l’espressione diretta ma vuota, e la postura sospesa tra sfida e resa, suggeriscono un momento di vulnerabilità esposta.
C’è un’energia di resistenza silenziosa: la figura non scappa, ma affronta il proprio confinamento.
La luce verdastra e sporca amplifica la sensazione di alienazione, come se lo spazio appartenesse a un sogno tossico o a un ricordo alterato.
Nella logica di Scene non vissute, questa immagine rappresenta il frammento di una memoria che non è mai accaduta, ma che continua a vivere come un déjà-vu emotivo — un momento in cui il corpo diventa il luogo di uno scontro invisibile tra volontà e fragilità.